Corre l’anno 2019 del mese di aprile del giorno 13 e 14.
Anche quest’anno abbiamo deciso nuovamente che dovesse essere la Maremma la protagonista di un intero weekend con le ruote grasse ed è la volta del viaggio dal mare Tirreno alle Vie Cave di Sorano e Pitigliano. Arruolo gli amici e compagni di corso guide, Stefano Sorresina, Enrico Papini, presidente dell’ASD i Custodi delle vie Cave e Stefano Spagnoli, responsabile dell’area sud della UISP di Grosseto, nonché organizzatore del rinomato Orbetello bike festival. Facciamo un briefing e viste le tracce conosciute da Enrico e Stefano, cediamo il testimone a loro per il tragitto e io e il “Sorre”, ci dedichiamo ad organizzare il supporto di gruppo. È un gruppo misto, misto Tosco-Romano: veniamo da Piombino, Venturina, Ladispoli, Orbetello, Sorano e Napoli. Ognuno di noi invita i propri amici e finisce che, nonostante i ritiri dell’ultima ora, si parte in 18 per poi essere 20 lungo le varie tappe del tragitto. Spagnoli e i suoi amici da Orbetello, punto stabilito per la partenza, sono gli esperti della traccia fino a Montemerano, dopodiché Enrico prenderà il dominio del gruppo fino a casa sua: Sorano.
Ci ritroviamo per la partenza. Siamo in orario ma perdiamo subito “Pisellino”, è il primo intoppo e avviene entro il quinto chilometro. Ci ritroviamo impantanati fino al collo in un sentiero a lato di un campo coltivato. Di fango ne ho visto molto in dieci anni di MTB, ma di fango argilloso mai e mai mi era capitato di non riuscire neanche a spingere la mia bici che, come dice il Sorre, sembrava diventata una FAT. In vari punti del sentiero ognuno di noi cercava di liberare la propria bici dalla catena fangosa. Credo sia stata una vera sofferenza psico-fisica visto che per i ciclisti una bici è sacra. Nonostante gli sforzi era impossibile proseguire. Lo sconforto ormai era dilagato e, col rischio di un ammutinamento generale, abbiamo deciso di andare a lavare le bici per poter proseguire.
Cade a fagiolo una amica dello Spagnoli che vive lì vicino e si è vista arrivare a casa 19 ciclisti in cerca di aiuto. Due sistole e tanta acqua che, secondo me, se lo ricorderà appena vedrà la prossima bolletta. Perdiamo così un paio d’ore che ci vedono deviare e optare per un po’ di asfalto fino al castello di Marsiliana, prima tappa e pit stop del tragitto. Uno spuntino veloce e cominciamo a prendere confidenza con chi non conosciamo. Io adotto Rossano subito con un patto alimentare sapendo già che avrebbe avuto lui il podio del giullare del gruppo. Ha tenuto banco fino a buio. Ha fatto ridere anche le facce più tirate dalla stanchezza ed ha giocato a ping pong di battute col suo gruppo, ormai esperto non solo del territorio ma anche del suo componente. Ripartiamo e, nonostante il grigiore, ci addentriamo nei boschi e lungo fiume. Io, che gli uomini li frequento prevalentemente in bici, perché con l’età sto diventando allergica e con la poca salute, anche scettica, ti pareva che non me ne “piombasse” uno addosso all’improvviso. Che avete capito? Ho scritto piombasse, nel vero senso della parola. Mentre osservavo concentrata il passaggio di attraversamento dei compagni di viaggio di un tratto di fiume, con acqua alta ed una discreta corrente, mi sono ritrovata per terra in un micro secondo con la bici fra le gambe, un “nottolo” di non so quanti kg addosso e pure la sua bici. Siccome il fango nei pedali è pronto ad insediare chiunque, lui che decide di sganciare i suoi ma non ci riesce alla fine fa come babbo natale: buttati che è morbido. La morbida ovviamente ero io e lui ne è uscito illeso dalla collisione ma non io che prendo un colpo al lato destro picchiato in terra e il lato sinistro che reggeva lui. Gli uomini mi lasciano sempre il segno, cavolo deve essere destino. Povero Simone che come approccio non gli è andata poi così bene all’uomo delle catene. Colui che la catena l’ha rotta al cubo. Un primato. Ma non c’è da pensare male comunque, son stata buona, non l’ho mai morso per tutto il viaggio, ho i testimoni possono garantirlo. Era così dispiaciuto che l’unica punizione stabilita era il dovermi lavare la bici all’arrivo.
Riprendo il viaggio fra un dolore e l’altro. Arrivano le salite, la fatica, i guasti tecnici e i rallentamenti. Con un po’ di ritardo sulla tabella di marcia raggiungiamo Montemerano: ci aspetta Enrico per pranzare insieme e farci da guida fino a Sorano. Pranziamo alcuni con pastasciutta altri con i panini e ripartiamo. Le salite si fanno sentire. Il tempo regge e forse riusciamo a non bagnarci almeno per il primo giorno. Arrivati a Sovana inizia la magia. A prendere il sopravvento è l’atmosfera. L’antico vissuto lasciato per terra, ovunque intorno a noi che ci aspetta ed avvolge. Ci carichiamo le bici in spalla sulle vecchie scalinate e poi mettiamo le ruote sulla via acciottolata e in un silenzio fatto di stupore e curiosità per alcuni, consapevolezza per chi ci vive, entriamo in Sovana in fila indiana. Ammiriamo il borgo, ci ristoriamo e ripartiamo. Siamo stanchi ma abbiamo tutti la certezza che la meta è vicina e che quello che vedremo varrà la fatica. Ed è così che ci ritroviamo a passare nella prima via cava. Io sono in fondo al gruppo. I brividi mi svegliano i neuroni. Sono felice. Mi fermo. Ascolto l’eco delle voci dei compagni felici. Scatti, riprese, emozioni, condivisioni. Viaggiare e scoprire è meraviglioso, farlo in bici è eccezionale per un cicloturista ed io lo sono nelle ossa. Si fa tardi perché la via è impervia. Serve tempo per attraversare alcuni tratti. In vista di Sorano, dopo lo spezzettamento del gruppo ci ritroviamo in pochi con Enrico. Gli altri proseguono per il residence. Ci porta sul belvedere.
Mi ritrovo affacciata ad un terrazzino naturale vista Sorano. È arrivato un sole ritardatario, ma sempre gradito al tramonto che sbatte i suoi raggi sulle finestre di quel paesino arrampicato sul colle. Paiono tanti minuscoli specchietti che riflettono la luce sul lato opposto, verso noi che, con gli occhi calamitati in quella cartolina di mondo, ci sentiamo soddisfatti e felici. Siamo incantati tutti anche Enrico che coglie e gode della nostra gioia. L’ingresso nel borgo avviene in silenzio, sono accanto a Stefania che, come me, forse come gli altri è assorta ed estasiata. Ho gli occhi rapiti dalle inferriate, dalle ringhiere dei terrazzini, gli scurini, i portoni, i volti dei vecchi palazzi ed Enrico ci fa un altro regalo: la salita verso la Fortezza. Non potevamo finire il viaggio che con questa bellezza conquistata a tarda sera che è stata il nostro toccasana. Arrivati in residence abbiamo tutti lavato le bici e la doccia, la cena insieme e una partita a “bigliardino”, sono stati il lasciapassare in un letto per il meritato riposo.
Secondo giorno di viaggio.
Partiamo con mezz’ora di ritardo. Bici riguardate, caricate e catene unte. Ci addentriamo in un sentiero suggestivo che sembra scavato, guarnito di file d’alberi dalle radici scoperte o interrate. È accogliente ed è già il presupposto per capire che la traccia fino a Manciano ci riserverà panorami stupendi, insoliti e curiosi. Fra Vie Cave e sentieri tecnici arriviamo a Pitigliano, altra perla della bella Toscana. La traccia complessa ci fa perdere molto tempo in pochi chilometri.
Enrico ci sprona ad aumentare la velocità dove possibile. Io non mi sento bene. Il sonno perso per i dolori ovunque si fa sentire. Il vento gelido delle strade aperte che si alterna al caldo umido del bosco mi stanca. Le salite sono pesanti. Sono pesante io ed anche la mia bici. Faccio fatica vado in affanno facilmente. Ma ho freddo e non posso alleggerirmi. Le gambe stanno bene, ormai le conosco ma so che non sto bene io, altrimenti non sarei partita con la colazione ad antidolorifico. Nonostante tutto tengo il motore al minimo, sia in salita che in piana, so che devo gestirmi e che sarà dura portare a casa l’arrivo ad Orbetello. Manca l’allenamento agli strappi, alle salite con molta pendenza. In un tratto di discesa conto il gruppo. Non sento la voce di Rossano e sento sofferenza di qualcuno. Essere empatici è faticoso. Lo cerco davanti con gli occhi. Pedala chino, non sta bene e ne sono sicura. Lo sorpasso e lo osservo ed imbocco un’interminabile salita sterrata. Lui passa avanti con gli altri e dopo poco lo vedo sul lato fermo. È arrivata la conferma che era fuori carburazione pure lui. Mi fermo. Mi assicuro che non sia grave e ripartiamo piano. I compagni non lo mollano. Io cerco di controllare il mio malessere. Finalmente ci fermiamo e chiedo la pendenza del tratto appena fatto, sicura di non aver sofferto così neanche lo Stelvio. Chi dice 18 chi dice 19, chi dice anche 20. Io penso che mi prendano in giro e che sia stata un’impresa arrivare lì per me. Mangiano tutti ma io cerco di non mangiare troppo, ero andata più avanti appena arrivata e avevo visto che continuava la salita. Quando non sto bene metto in moto tutti i neuroni che mi possano aiutare dove non mi aiuta il fisico. Parto prima di altri e mi metto in modalità ridotte per non respirare male e mi metto sotto le ruote tutto il resto della salita senza fermarmi e senza sudare. Ci sono ancora troppi chilometri e dovrò soffrire. Gli antidolorifici mi hanno abbandonata e arrivano i dolori più forti di prima alle braccia e, le mani, comincio a non riuscire a chiuderle sulle manopole. Gli avambracci sono pesanti come macigni e fanno male. Faccio fatica e non riesco più ad alzare la bici sugli ostacoli solo con le gambe. Comincio a respirare male chilometro dopo chilometro. So che gestirmi ormai non basta e che qualcosa dentro si è inceppato. Nonostante tutto mi godo le battute dei compagni di viaggio, le chiacchierate spezzettate a turno, Sergio che è una macchietta e si pitucchia coi suoi amici. Mi godo la vista di Beppe in sella che è uno spettacolo e si arrampica con scioltezza, esperienza e disinvoltura come un capriolo. Rossano si sveglia dal suo torpore: comincia a stare bene. Pisellino non mi perde di vista. Mi sta tenendo d’occhio già da un po’ e Gianni lo fa silente da quando siamo partiti. Anche il mio silenzio aveva dato l’allarme a chi mi conosce. Ed è così che, a oltre dieci chilometri dalla meta, devo alzare bandiera bianca, scendere dalla torpado che non vuole più vedere salite. Entra in gioco Luciano: guida ambientale. Organizzano una divisione di gruppo. Chi con me rientra evitando i tratti peggiori ma non i chilometri e chi si va a godere ancora un po’ di panorama.
Con calma riprendo controllo della bici e della testa, capisco che il freddo mi ha congestionata e che il blocco a respirare era probabilmente lo stomaco. Pedaliamo piano chilometro dopo chilometro finché non costeggiamo la laguna. Il sole che ci si siede sopra mi cattura.
Non vedo l’ora di arrivare ad una doccia bollita. Beppe non mi molla fino all’ultimo metro. Riesco ancora a chiedere curiosa cose sulle vasche e i loro meccanismi. Non riesco a rivederli tutti però all’arrivo. Rossano, Luciano, Pisellino e Beppe ci salutano e se ne vanno. Io, Stefano e Rossana aspettiamo Enrico per il bagaglio. Dopo la doccia mi riprendo per guidare e finiamo a cenare per strada davanti un piatto di carne arrosto, stanchi ma felici e consapevoli che 147 chilometri di fuori strada in due giorni e 2510 metri di dislivello non sono cosa facile. Ed anche se lo fossero, non è facile farlo con il tempo incerto che fa 4 stagioni in un ora per un totale di 19 ore di sella in un weekend; non è facile sopportare il bagnato addosso, il fango che ti appesantisce e fa lo stesso con il mezzo, la sete dove non puoi bere, i malori ed i dolori fino alla fine. Ma mi sono messa in tasca un angolo di mondo conquistato in bici, un weekend sprofondato nella natura incontaminata dagli umani e dai telefonini, nuove voci e spero nuovi amici felici.
di Silvia Mangiameli