di Silvia Mangiameli
Mercoledì 31 Agosto 2016
Quest’anno, al consueto giro in montagna del Prosecco Team, ho deciso quasi all’utlimo momento di aggregarmi anche io. Per un motivo o per un altro non ci sono mai riuscita. Hanno deciso di aggregarsi anche loro al gruppo di Franco Canova già organizzato per la partenza. Destinazione Passo dello Stelvio. Nove membri dell’equipaggio già collocati in albergo. Edo Balestri, Giorgio Sonetti, Adriano Gaspari, Fabio Tavarnesi, Giorgio Cristiani, Roberto Chiarei, Andrea Cassola, Maurizio Papi. Per il Prosecco Team è la seconda volta. Hanno scalato la cima Coppi da Prato allo Stelvio in passato e ora la vogliono scalare da Bormio. Un mostro di montagna della quale ho sentito parlare e raccontare spesso dai ciclisti che son riusciti a conquistarla. Decido. Vado anche io. Mi organizzo con le vacanze delle mie ragazzette e facendo le mie ferie a casa, mi lascio libero il weekend dello Stelvio bike day. Giornata dedicata alle scalate senza motori. Quale migliore occasione per farlo in bici senza pericolo?
Noleggiamo un furgone anche noi per le bici e io metto a disposizione la “taffemobile” per l’equipaggio. Con me del Prosecco ci sono Luca Gennaiotti, Marco Merlo Merlini, Simone Gennusa, Adriano Popolla e si aggiungono Emanuele Selmi, Fabrizio Fabbri, Saviano Giovani, poi pure gli elbani Mario Burelli e Isabella Conti. Nei giorni precedenti la partenza mi hanno scritto o contattato in tanti, anche chi non avrei mai pensato lo facesse. Dai primi giorni di agosto ho cercato di pedalare preparando la mia testa ed il mio corpo ad una montagna speciale. Il signore fra le montagne d’Italia. Un Re. Il re a cui avrei portato la mia Principessa compagna di viaggio e di vita, la mia Colnago da corsa. La montagna in bici da corsa era già stata fatta anche dalla sottoscritta. Il Sella-ronda e vari passi toscani o umbri. Ma qui le maniche sono un altro paio. Questa montagna è alta, è tosta. 2758 metri è la vetta e se poi ci metti che la volevano fare due volte passando dalla Svizzera, lascio immaginare la fifa avuta solo a pensarci. Infatti il primo equipaggio parla di fare il giro ciclistico più bello di Italia e uno dei più belli del mondo. Farlo per tutti e due i versanti italiani in ascesa e il versante svizzero in discesa. Si tratta di un centinaio di chilometri con quarantasei chilometri di salite. Mi veniva spontaneo pensare che intorno casa la più alta è di tre chilometri. Che con un ora circa d’auto si va sul monte Amiata che sale di solo sei, per dare una idea precisa di quanto sono lontane le montagne vere da casa mia.
Nonostante il fatto che io sia realista e molto concreta nella vita ma anche molto ribelle e libera di mente…ero già partita da giorni io per quella vetta. L’ho studiata nelle foto, nelle mappe non più di tanto. Sapevo che una salita non mi avrebbe “cenciata”. Sapevo che questo era l’anno giusto. Che oltre alla grinta e tenacia che ho nel dna, c’era la preparazione fisica e mentale per tentare di andare in alto. Sono una che medita e poi sceglie. Se scelgo poi ci lavoro giorno per giorno, finchè non capisco quali sono le mie possibilità ed i miei mezzi per raggiungere il fine prefissato. Sono fatta così. Non serve essere campioni in questi casi o agonisti o sboroni. Serve far funzionare la testa e non azzardare nulla. A conferma dei miei pensieri ci sono loro: gli amici veri. Quelli che mi mandano per posta una poesia, perchè mi conoscono, quelli che scrivono col cuore, che insegnano, che incoraggiano o alimentano la mia autostima per alcuni fastidiosa forse ma essenziale per me per essere quella che sono. Se una cosa non posso farla non mi espongo. L’impresa qui è ardua, seria, rischiosa per la salute se uno azzarda. L’adrenalina sale di giorno in giorno.
Principessa però si rompe ad una settimana dalla partenza. Nel giro con i “lentiecontenti” in Maremma per allenarmi, mi molla il cambio. La catena non salta più sul cinquanta, la corona più alta davanti. Sento che il problema è serio. Luca Staccioli ci mette mano subito ma capisce che è da rivedere. Sapendo che ero entrata in panico a causa dei pochi giorni disponibili per sistemarla e in un periodo critico come agosto, ha preso in consegna la mia bici, ha fatto controllo accurato, l’ha rimessa a lucido ma ha capito che doveva esser portata dal meccanico. La leva del cambio di sinistra era andata, rotta. Sospettavamo problemi diversi ma era quello il problema vero. La infilo in auto col groppo in gola. Perdere la possibilità di andare dal Re mi sgomentava. Ero già sconfitta prima ancora di partire. Desolata lo comunico ai ragazzi del Prosecco e dei Lentiecontenti. Claudio Giaggia Senesi comincia le ricognizioni nel gruppo e telefona subito mentre Riccardo Erostango Carpentieri prende in consegna subito la Colnago. Sa del viaggio e non guarda impegni e ci lavora subito ma la leva è rotta. Lui non ha leve come le mie in magazzino. Sempre più sconfortata. I ragazzi corrono sulle tastiere a cercare le leve nel web con spedizioni veloci. Paolo Brizzi arriva in mia salvezza, le ha lui di una vecchia bici e me le assicura. Intanto Riccardo Erostango Carpentieri trova una leva sinistra adattabile e la monta subito per farmi partire. Il Martedi la bici è pronta. Il mercoledi però non riesco a provarla per i mille impegni prima della partenza. Cerco di essere scaramantica. “Andrà tutto bene” mi ripeto nella testa ogni momento che ci penso. Cosi come con Franco Canova ci ripetevamo “solo un numero nella testa”, nella nostra prima gf da 140 chilometri.
Arriva il momento di partire tutti insieme. La notte non dormo in preda all’ansia e all’eccitazione che è consueta per me ad ogni viaggio. Mi rimbombano in capo le frasi di chi mi ha scritto o chi mi ha telefonato apposta. C’era quella frase di chi di età ne ha tanta e di ciclismo ne sa altrettanto che mi ritornava in mente: lascia fare a lui, ascoltalo, te lo dirà lui come devi salire. Non curarti degli altri. Tu puoi farcela se non azzardi, se ti ascolti, se lo vivi tornante dopo tornante. Tu salirai quella vetta perchè tu sei tosta, tu sai stare sulla tua bicicletta, tu vuoi quella cima Silvia, te la meriti tu quella montagna. Aspetta solo te. Lascerai su quella salita tutto il dolore, tutto il brutto della tua vita e sarai felice. Tu devi ascoltare le parole delle persone che ti vogliono bene perchè che alla gente garbi o no a te ti vogliono bene in tanti. Ti adorano perchè a te non si può non amarti. Vai e sali su quella montagna. Quando sei lassù pensami un secondo. Portami con te nel tuo viaggio, sono leggera. Vorrei condividere con te questa esperienza unica. Fammi sapere….e cosi via. E queste son solo la metà delle frecce al cuore che arrivavano durante le ore di attesa. Durante il viaggio volavano risate, battute e la conoscenza per caso, nello scorrere delle ore si muta in affiatamento.
Il venerdì appena arriviamo ci sistemiamo in albergo. Emanuele, Fabrizio, Isabella e Mario si mettono le divise e partono per il Gavia. Io e gli altri decidiamo di fare i turisti a Livigno. Sapevo che sarebbe stato un errore per me stancare le gambe. Ci divertiamo in giro per una Livigno imbiancata dalla neve sparata nel centro per una manifestazione della serata. I colori, i prati, i monti, le casette, tutto un pò come lo ricordavo ma più colorato, più caotico. I turisti traboccano a passeggio e fra i negozi. Facciamo gasolio ai furgoni e si riparte per la cena in albergo, dove si ride e si parla solo di salite. Io non perdo i miei pensieri anche se rido, parlo, li ascolto, osservo le espressioni dei loro volti soprattutto quando chiedo consigli. Non si saranno nemmeno accorti di quanto ho colto le loro espressioni o preoccupazioni alle domande poste da me o da Isabella. Teorie sparse di chi sa già che deve fare a chi pensa come dovrebbe fare. Io nella mente sempre la stessa frase “andrà tutto bene, me lo dirà lui come salire”. Ovviamente non trovo sonno nemmeno la notte fra il venerdì e il sabato. Ho studiato l’abbigliamento giusto e preparato equipaggiamento per cento chilometri. Avevo già scelto in fondo. Infatti la mattina raggiungo il bivio verso la Svizzera senza alcuna difficoltà a parte un tratto al 14% per fortuna non lungo. Mi assaporo ogni metro, ogni roccia, ogni sciabordio d’acqua che scorre a valle. Mi ritrovo infastidita da ciclisti chiaccheroni e sboroni che mi stanno intorno per almeno mezz’ora. Faccio in modo di superarli ma me li ritrovo dietro, con la loro confusione verbale fuori luogo e insensata. Zingari in bici, sporchi e sciagattati di quelli che pur di vedere il mondo come vogliono calpestano il silenzio di chi lo vuole vivere diverso. Niente da fare, lo dico ad alta voce che se sbraitano meno la montagna se la godono tutti ma non mi cagano. Trovo la soluzione nel rallentare io. Non mi dovevano sciupare l’umore. Tutti provetti quelli che parlano, tutti già saliti, tutti bionici pare. Ma non mi lascio incantare. Chi passa veloce come un razzo in un giorno con le strade chiuse verso una maestosità di montagna così bella da mozzare il fiato, assolata e lucida, calda e accogliente non capisce niente. Mi han fatto pena coloro che si son riempiti del solo passare veloci gli altri. Durante la prima ascesa c’era la massa della partenza sparsa su tutti i tornanti. Sembravano lente formichine colorate che si arrampicavano curiose. Non c’era un tratto di strada vuoto. E’ stato bello vedere gli sguardi dei miei compagni di viaggio. Ammaliati, increduli, estasiati. Li vedevo fermarsi all’improvviso e tirar fuori i telefonini o dire qualcosa di gioioso. E’ stato bello viaggiare con loro a turno. Ognuno col suo passo, ci trovavamo per caso e per caso ci perdevamo. Emanuele sale accanto a me per un bel tratto. Spesso lo invito ad andare al suo passo ma lo vedo che non mi vuol mollare. Forse gli dispiaceva lasciarmi sola. Non mi conosce abbastanza da sapere che io sola sono felice, serena, abituata e in quel tratto talmente piena di gioia che mi era impossibile soffrire la fatica. Ma sta con me, mi regala anche foto che io non avrei fatto. Le stavo facendo con gli occhi. Non mi sono neanche accorta che sopra di me c’era Fabrizio che, come lui, faceva le foto ai compagni di viaggio più vicini a lui. Una gentilezza da chi si immerge in un gruppo senza conoscere che il suo amico Emanuele. Mi è piaciuto Fabrizio, è solare, socievole, ironico e affiatato al suo compagno di viaggio che è una macchietta. Con Emanuele avevo già fatto alcuni giri l’anno scorso. E’ amico del mio più caro amico Alessandro Bernardi. Sono molto simili di modi e carattere. Un altro “casinista” nel prosecco team ci sta bene.
Siamo come i topini nella farina insieme tutti quanti. Arriviamo al bivio. Ci ristoriamo e cominciamo a ragionare su chi va in vetta e chi si butta in discesa in Svizzera. Io decido per proseguire subito nonostante le titubanze dei miei compagni di viaggio. Tanto sola non sarei stata e fino alla salita da Prato il primo equipaggio mi avrebbe scortata. Decidiamo di proseguire tutti tranne Adriano, Roberto, Isabella e Mario che salgono subito sulla cima Coppi. Mi assicuro di avere le tasche ancora piene per fare almeno altri ottanta chilometri fra discesa, salita e rientro alla base in salita ovviamente, mica ce le siamo fatte mancare noi!!!!!
Foto di rito al passo svizzero e poi giù in discesa. Sorpresa di non trovarla sterrata ma rifatta di tutto punto. Strepitosa, pulita, alberata in valle da lasciare senza fiato per la fisiologia della strada e per la vista che offre anche fra gli alberi così alti e verdi che stai col naso in su mentre scendi. Fabrizio scende con me e quando gli dico di avviarsi tranquillo che freno per vedere meglio e di più, lui se ne esce con: mica sono in gara e non ci torno domani. In discesa io vado anche piano per cui stai tranquilla si fa insieme. Arriviamo a turno tutti quanti e si riparte verso Prato allo Stelvio. Non teniamo tutti lo stesso passo. Come in salita ci sparpagliamo. Io mi ritrovo o sola o con Emanuele o con il Merlo. Nei tratti sola cerco di prendere i treni che passano per avvicinarmi ai ragazzi davanti, c’era vento e volevo risparmiare più energie possibili per quel mostro di salita che mi attendeva a poca distanza. Giungo fino a Marco e proseguiamo fino a Prato. Ci raduniamo con Luca e Simone e arrivano anche tutti gli altri. Decidiamo di fermarci, riposare, mangiare e recuperare energie per il mostro. Ripartiamo sazi e sereni ma già all’uscita del paese ci sorprende un caldo inaspettato. Ho pedalato con la speranza di una folata di vento via via che incalzava la salita. Presto l’ombra ci abbandona e fino a Trafoi e oltre, la temperatura ci affligge più della salita. Sofferenza pura. Pedalavamo accosto al muro di destra che ci rimbalzava il caldo e dalla valle a sinistra non arrivava mai un filo di vento. Mi passavano intorno ciclisti con il viso bagnato che gocciolava come un rubinetto. La montagna era ancora nascosta. Lascio indietro senza nemmeno accorgermene alcuni compagni di viaggio. Proseguo con Marco ed Emanuele. Ma mi ritrovo sola e poi con Emanuele davanti. Marco lo perdo dietro, poi lo perdo davanti. Emanuele comincia a preoccuparmi, si lamenta, si sconforta. La mia testa comincia ad elaborare pensieri strani. Emanuele è un agonista, lo vedo in gara, perchè soffre più di me? Scherziamo, lo prendo in giro, lui continua a fare il simpatico ma è in difficoltà e me lo dice. Ho pensato che se il giorno prima non avesse fatto il Gavia sarebbe stato più facile per lui. Decidiamo di fermarci accontentandoci di un albero soltanto sul lato sinistro della strada. Non avevamo passato ancora il bosco di Trafoi. Marco è più avanti di noi. Ci sediamo su un tronco d’albero e ci spogliamo di bandane e caschi mezzi di sudore, appendo alla bici la bandana e osservo il sacco in neoprene che ho appeso al manubrio.
La cicloturista giramondo che vive in me ha deciso di usare la bici invece delle tasche per non sudare troppo sulla schiena. Avevo appeso la sacca con la maglia felpata che Simone Pesenti mi ha gentilmente prestato per fare la discesa se fosse stato freddo vista l’inutilità della giacchina a vento per chi patisce tanto il freddo come me. Ho appeso anche i copriscarpe. Mi sono levata i guanti, il caldo era esagerato, dovevo stare meglio possibile in bici. Ciabattiamo pochi minuti e si riparte. Ma poco dopo troviamo Marco fermo all’ombra e stranamente Emanuele si riferma. Io non voglio fermarmi di nuovo e proseguo sicura che a minuti mi avrebbero ripresa. Quei minuti non si sono fermati mai. Li ho persi. Per i primi chilometri ero tranquilla solo accaldata. Ma quando la montagna mi si è presentata davanti è arrivato lo stupore. Non era per i tanti tornanti che vedevo alla mia sinistra. Era la lontananza che mi stupiva. Ho realizzato la difficoltà tecnica in quel preciso istante. Considerando la stanchezza addosso quello che mi paralizzava gli occhi era inarrivabile, irraggiungibile, impensabile. Sospiro pensando che se non riuscivo mai a recuperare fiato, con quella temperatura che mi spaccava il cervello sarebbe stato un dramma salire. Non mi sono scoraggiata quando nella mia testa è arrivata l’idea che intanto dovevo arrivare sotto a quei tornanti e poi mi sarei preoccupata di come salirli. Emanuele non arriva, Marco nemmeno. Ho l’ansia che stiano male dal caldo. Non arriva nessuno e lì viene il bello. Sono sola. Sola come sempre ma con un mostro davanti. Penso continuamente, cerco di respirare regolare. Guardo i cartelli dei tornanti. Al nr. 20 la contabile che è in me fa i conti. Li faccio coi chilometri, con le altezze, con quello che ho già percorso, con quello che devo ancora fare. Mi scoraggio. Non è possibile che io non veda arrivare gli altri. Il mio passo regolare non poteva essere cosi forte. Avevo mantenuto circa 8/9 km/h, cominciavo a scendere a 6,7 e ho cercato di rimanere costante ma mi è stato impossibile. Fra quando non respiravo dal caldo e dalla fatica, fra che il tornante sale e devi spingere per farlo mi son ritrovata a pedalare a 5,6 km/h. Mi fermo al ristoro e bevo ogni cosa dolce che trovo. Mangio le zollette che odio. Arrivano Fabio poi Giorgio e Andrea. Marco ed Emanuele no. Fabio mi dice che non ce la fanno più. Che hanno chiamato Adriano per farsi venire a prendere col furgone. Lo sconforto a questo punto diventa panico. Ma me lo tengo per me.
Riparto da sola ma arriva la consapevolezza che avrei fatto tutto da sola fino alla fine, che non potevo più ridere o fare la scema con Emanuele per scansare i brutti pensieri dalla testa. Mi raggiungono Andrea e Giorgio, faccio un tratto con loro ma è breve. Si rifermano, io no, proseguo stingendo i denti finchè posso. Ho resistito fino al 5° km dalla vetta dove mi son fermata all’ombra di un chiosco di legno. Dovevo studiare la strategia per salire. Mi svuoto le tasche mangio, bevo, penso. Stanca. Mi sento tanto stanca. Le ginocchia cominciano a fare male. La ragazza del chiosco mi offre una banana che prendo senza neanche accorgermi che non è un ristoro ma che la banana era la sua, vendeva le magliette lei!!!! Mi scappa da ridere, offro di pagarla e lei si rifiuta di accettare soldi. Vabbè mica gliel’ho chiesta!! Arriva un messaggio. Guardo il telefono solo per vedere se ho chiamate dai compagni di viaggio. Nessuna. Sento la seconda ambulanza passare sopra la mia testa. Scendeva dove io stavo salendo. Non so dire a questo punto a che livello è salita la mia preoccupazione per loro dietro. Era dalla mattina che evitavo di vedere messaggi e notifiche per non distrarre la testa. A quel punto mi salta all’occhio una frase accesa: tataaaaaaaaa come va? Era Alessandro, stava monitorando da casa i nostri tempi di ascesa, era in ansia, conosce bene la salita fatta da lui due anni prima. Gli dico che è dura e che son sola. Si meraviglia di chi ho dietro e si preoccupa pure lui, come me, degli altri. Anche a lui pare impossibile che Emanuele non mi abbia raggiunta. Mi incoraggia a mangiare e proseguire a costo di fare più fermate. Fa al volo un gruppo su wa con le mie bimbe che per lui sono nipoti. Mi scrivono subito e mi incitano a non mollare la presa. Son ripartita piangendo. Non solo per la fatica. Il pensiero di Emanuele dietro e lontano mi faceva rendere conto che se non ce la facevano loro non avrei potuto farlo io. Il sapere che magari uno dei due stesse male mi mordeva la bocca dello stomaco.
Mi son sentita sola per la prima volta nella mia vita. Ho alzato la testa, ho guardato il tornante sopra di me e ho cercato di arrivare al terzo chilometro senza più guardare i cartelli. Mi è venuta in mente la frase: non guardare cosa devi fare, guarda cosa hai fatto. Ma non puoi farlo, non c’è tempo e modo di guardare quando devi non perdere l’equilibrio per la stanchezza, evitare di strappare i muscoli o far arrivare un crampo che vuol dire che devi scendere dalla giostra. In preda allo sconforto mi fermo sul tornante al terzo chilometro e ragiono. Ed ecco che non guardando l’orologio non mi sono accorta che hanno aperto il passo al traffico. Arrivano sparati i suv da sopra e da sotto, le moto, i mercedes a tutto gas e le lacrime scendono subito perchè sapevo che ora non c’era solo da salire, c’era da non farsi male, c’era da salvarsi. Conosco bene lo Stelvio in auto o in camper. Mi mancava solo in bici. Salgo in sella impaurita e decido di fare solo un altro chilometro per vedere come reagivo al traffico sul tornante. C’era il mondo a salire e scendere in quel momento. Erano quasi le cinque di pomeriggio. Arrivo trafelata al secondo chilometro e mi stupisco di me stessa, non mi fermo e arrivo al tornante vicino all’ultimo chilometro e mi fermo al volo. Si tenga conto che non c’è recupero su quella salita, che è difficile ripartire, che dietro al tornante ci son forse solo due metri per riagganciare il pedale e che devi non farti spiaccicare al muro dalle auto impazzite da un carburante che dietro l’angolo di Italia non costa una sega nulla e che non vedono l’ora di finirtelo in faccia. Mi siedo sul muretto. Alzo la testa, conto l’altezza del tornante sopra di me. Saranno cento metri forse, conto i metri di distanza fra una curva e l’altra ed osservo le due macchine che su quella curva non si scambiano. Penso che se mi trovo lì nella stessa situazione non riuscirei a girare senza allargare la curva e cadrei in terra per la stanchezza che non mi farebbe staccare il pedale, oltre che a scivolare le tacchette sull’asfalto. Penso anche che è solo poco più di un chilometro che se lo spezzo a 500 metri posso farcela. Monto in sella sentendo arrivare il crampo al piede destro, stacco il piede al volo. Ero ancora ferma. Scendo. Faccio Stretching. Arrivano due inglesi. Si siedono accanto a me. Stanchi. Mi borbottano qualcosa e rispondo senza pensare. Poi dico a me stessa che le parole non le troverei nemmeno in italiano adesso figuriamoci in inglese.
Sorrido, li saluto e riparto decisa come un cecchino prima di sparare. Le macchine arrivano dietro ma riesco ad agganciare mi butto nel mezzo obbligando l’auto a non sorpassarmi, tengo le dita incrociate mentalmente che sul tornante non ci sia altra auto. Sento auto e moto dietro che fremono nel sorpassarmi ma non li faccio passare, allargo il tornante, ci metto tutto quello che mi era rimasto e salgo spostandomi subito a sinistra, proseguo per il tornante successivo e decido di non fermarmi di nuovo. Non posso essere così lontana dalla cima. Ma perchè non la vedo questa cazzo di cima? mi domando perplessa. Guardo in terra. Mi fa male da morire il ginocchio destro, non ce la faccio più dal dolore alle gambe, ormai il fiato manco lo conto più. Erano le mie gambe che dicevano solo basta. Continuo a guardare in terra e vedo un numero: 500. In quel preciso istante alzo la testa e vedo colori rossi e neri che si muovono. Non ci credo. Quello che ho davanti è la fine. Sento una lacrima sulla gota sinistra scendere più veloce della luce. Non voglio più fermarmi, che importa ora se arrivano i crampi. Li strazio questi muscoli ma vado lì, dove ci son tutti quei colori. Ho gli occhi bagnati ma non piango perchè so che arrivo in quella marea di ciclisti che stanno girando felici. E appena giro la curva cerco con gli occhi Luca e mio cugino Simone. Ed è proprio lui che mi viene di corsa incontro e mi ferma la bici con un abbraccio che mi porterò nel cuore in eterno. Gli chiedo di tenermi perchè mi trema ogni muscolo e non connetto dalla stanchezza. Gli dico che devo mangiare subito per non sentirmi male. Mi aiuta ma sono persa, sono alta, mi parlano lui e Luca ma non li sento. Ero su. Su. Tanto su che ho preso la bici e continuato ad allontanarmi da tutti senza accorgermene. Vado davanti un chiosco e vedo la bandana rosa e nera della cima Coppi. La voglio subito e me la metto in testa. La ragazza del chiosco esce fino a venire da me sulla bici per riscuotere. Poi ci facciamo le foto. Ero ancora su io però. Ci accordiamo per la discesa. Si pensa di farla insieme. Ma io insieme non volevo fare più nulla e lo sapevo. Avevo fatto tutto da sola. Io ho sempre dovuto fare tutto da sola nella vita. era giusto così. Era una conferma di chi sono io, quella salita.
Mi vesto, mangio, bevo, saluto chi arriva e mi congratulo come gli altri. Si riparte ed io perdo chi ho davanti alla curva della cascata. Quello era il punto giusto per salutarlo. Dove c’eravamo solo io, lui e chi si era fermato per fare una foto. Faccio un video che pubblico sapendo che chi mi ama avrebbe capito come stavo e non volevo estraniarmi con telefonate varie. Passa Fabio. Si ferma. Ero fuori dal mondo con la testa ma mi dice la cosa più bella che potessi sentire. Marco ed Emanuele stanno salendo, hanno strinto i denti e non hanno mollato, sono quasi in cima, vai serena ora. Ecco ora potevo anche piangere di gioia. Stavano bene e avevano conquistato sè stessi più di un cima. Si perchè arrivare li non è da eroi è da coraggiosi. E’ un volersi guardare dentro fino in fondo. Aver davanti un leone che sai che morde e che fa male e che devi usare la forza interiore per sconfiggerlo. Non serve esser forti fisicamente. Serve avere testa per provarci questo si, ma se non si ha la forza di non perderla non si vince. Abbiamo vinto tutti. Questo conta. Ognuno di noi ha vinto il caldo, la sete, la fatica, i dolori alle gambe, al collo, al sedere, hanno vinto gli occhi per volerlo guardare dall’alto. Ecco perchè voli, Perchè sei stato più forte di lui che è immobile e ti guarda soddisfatto mentre osserva i milioni di pensieri diversi che ti passano per la testa, mentre guarda le tue espressioni che cambiano. Lui aspetta solo te. E se lo ascolti te lo dice davvero lui come devi fare per arrivarci. La cosa più bella non è stata abbracciarlo in sella. E’ stato non avere mai la voglia di smettere di pedalare, è stato un non avere nemmeno un pensiero brutto della vita passata. E io lo sapevo. Ed era per quello che ci son voluta salire. Per lasciarmi dietro tutto quel dolore e provare una gioia immane che come una gomma ha cancellato quello che è stupido vivere.
Che mi porto per sempre nel cuore chi mi è stato accanto e ha sentito ogni mia emozione è normale ma questo viaggio mi ha spaccato a metà il cuore nel senso che ha fatto posto ad altro dolore forse ma intanto si è imbevuto di amore per la vita, per esser riuscita a guarire, per aver avuto il coraggio di scansare ciò che ha fatto male e per aver lasciato entrare tante altre belle persone. Ringrazio tutti voi e soprattutto Emanuele che ha guardato lontano e non mi ha mollata quando non serviva nessun aiuto. Generosi si nasce e non serve conoscenza per esserlo. In questi tre giorni ho visto abbracci, aiuti, conforto e incoraggiamento di un gruppo di amici datati e non. Ho visto solidarietà, coesione, amicizia, calore e tanta tanta voglia di stare insieme. Credo sia uno dei miei viaggi più belli. In assoluto il migliore in sella. Ti ho portato Principessa Re delle montagne. Ora siamo all’altezza. Sono una ciclista vera adesso. E come direbbe qualcuno: Fa una sega a te il Peruzzo!!!!!!
Vi voglio bene adesso, domani è un altro giorno, dovete meritarvelo!!!!! Silvia Mangiameli ascesa allo Stelvio del 27 Agosto 2016